I cambiamenti climatici costringono intere popolazioni ad abbandonare il proprio territorio per migrare verso altre regioni, nella speranza di sfuggire alla fame e alla sete. Contemporaneamente in aree più fortunate del pianeta ci si confronta con il problema opposto, e cioè l’eccessiva l’abbondanza di cibo, che oltre a favorire lo sviluppo di malattie come obesità, malattie cardiovascolari e diabete 2, favorisce lo spreco alimentare.
Per spreco alimentare, secondo gli esperti del settore, si intende la perdita di di una parte del cibo destinata al consumo umano.
Recenti stime indicano che in un anno va perduto il 30% del cibo prodotto per uso umano.
Tale perdita oltre che per il mancato consumo, può verificarsi per svariate cause, e ciò può accadere sia durante la produzione agricola e la successiva lavorazione, sia durante la conservazione e la vendita.
Nei paesi in via di sviluppo, lo spreco alimentare dipende soprattutto da inadeguate modalità di preparazione o di conservazione, mentre è quasi nullo lo spreco domestico, come è facile immaginare dati i bassi livelli di reddito delle famiglie.
Secondo la F.A.O. nei paesi ricchi si arriva addirittura a sprecare circa 100 kg di cibo all’anno in media per persona, contro i circa 10 kg dei paesi poveri.
I riflessi di questo fenomeno si rivela sono particolarmente gravi, considerando il fatto che tutto il cibo sprecato basterebbe a sfamare ben due miliardi di persone al mondo.
Il problema è di grande rilievo anche a causa dell’impatto ambientale che esso determina, se si considera la quantità considerevole di acqua, di terra e di energie utilizzate per la produzione del cibo che viene successivamente gettato.
I rifiuti alimentari non utilizzati finiscono in discarica, dove inevitabilmente determinano fenomeni di digestione anaerobica, con produzione di metano e conseguente contributo all’effetto serra .
Secondo gli esperti dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), gruppo di lavoro creato nel 1988 dalle Nazioni Unite, orientativamente negli ultimi dieci anni lo spreco alimentare risulta responsabile del 10% circa delle emissioni di gas serra, determinando una inutile perdita di biodiversità.
Secondo la FAO il quantitativo di anidride carbonica prodotto e immesso nella atmosfera, rapportabile allo spreco alimentare, sarebbe pari a oltre tre miliardi di tonnellate.
Le soluzioni praticabili per fronteggiare questo problema sono numerose e interessano i singoli cittadini, le comunità, le aziende di produzioni e le catene di distribuzione del cibo. La prima da mettere in atto dovrebbe essere una diffusa e intensa opera di sensibilizzazione dei consumatori, in particolare nei paesi industrializzati, che li renda consapevoli dell’entità del problema e dei suoi esiti negativi, e li porti ad adottare comportamenti più attenti e meno propensi allo spreco di cibo. Come comprare solo ciò che manca in casa e si è sicuri di consumare, riscoprire l’arte della cucina di recupero utilizzando gli avanzi, contenere la dimensione delle porzioni di cibo.
Noi pediatri di famiglia possiamo giocare un ruolo fondamentale nell’opera di sensibilizzazione giovandoci del nostro ruolo di educatori alle buone pratiche di salute.
A livello produttivo va riservata una particolare attenzione ai vari passaggi della catena di produzione.
Nei paesi in via di sviluppo, andrebbero costruiti moderni impianti di stoccaggio e garantite catene di raffreddamento adeguate ai carichi di produzione e alle normative ufficiali.
Le catene di distribuzione dovrebbero fare in modo di smaltire il cibo che potrebbe andare in scadenza finendo poi per essere buttato, dando sostegno alle organizzazioni che si occupano del recupero dei prodotti alimentari non più vendibili ma ancora commestibili.
Una volta scaduto per l’uso umano potrebbe essere utilizzato come ottima alternativa alla produzione di mangimi per gli animali secondo quanto previsto dagli orientamenti della Comunità Europea.
A cura di Vito Romanelli, Area Ambiente e Salute FIMP
L’IMPEGNO CONTRO LO SPRECO ALIMENTARE